Oltre la sinistra dei baby boomer
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- Pubblicato Mercoledì, 09 Ottobre 2013 10:03
Quando il campione mondiale della generazione dei baby boomer, Bill Clinton, s’insediò alla Casa Bianca, in una gelida mattinata del gennaio del 1993, il mondo comprese che un passaggio di consegne tra due generazioni stava prendendo concretamente corpo. Le elezioni presidenziali del 1992 erano state anche quello, un passaggio di testimone tra due Americhe: lo scontro tra il figlio di un banchiere del New England, il presidente in carica George H. W. Bush, classe 1924, e un ragazzo del Sud orfano di padre che si era fatto un’istruzione grazie alle borse di studio del sistema americano, William Jefferson Clinton, classe 1946.
Così, il giovane presidente arrivato a Washington da Hope, piccolo paesello agricolo della contea di Hempstead, nel sud ovest dell’Arkansas, emozionò tutti quando, con un linguaggio che echeggiava la retorica di Martin Luther King, quella gelida mattina del gennaio 1993 disse: «Noi marciamo alla musica del nostro tempo, ma sappiamo che la nostra missione è senza tempo. Ogni generazione di americani è chiamata a dire cosa significa essere americani».
Al di là della pugnace retorica illuminista clintoniana, assai diversa dall’idealismo messianico alla Obama, c’era il tentativo, in quel discorso, di fare i conti con la lunga marcia che aveva portato la generazione dei baby boomer finalmente al vertice nel mondo. I nati nei vent’anni successivi alla fine della guerra, che avevano vissuto come esperienza centrale della loro vita quanto agitò gli animi intorno al 1968, giungevano finalmente al potere. E ci arrivavano dopo aver esercitato la più feroce critica del potere conosciuta negli anni del secondo dopoguerra.
A rileggerlo oggi, nello speech di Clinton si avverte una profondissima consapevolezza del cammino fatto, dei valori a cui si era rimasti fedeli, delle numerose revisioni che l’irrazionalismo della gioventù aveva subito negli anni della maturità. Quello storico discorso d’insediamento di Bill Clinton vale davvero come corretta contestualizzazione della questione che qui si sta cercando di mettere in luce: quale bilancio per i baby boomer al governo ora che ormai tengono i nipoti sulle ginocchia eppure non si rassegnano al mollare l’osso ai figli? Nonostante la loro voracità abbia privato quest’osso finanche del ricordo della carne…
Da qualche anno, a dirla tutta, è in corso nel mondo occidentale un appassionato dibattito intorno al grado di efficacia fatto registrare dalla lunga permanenza dei baby boomer ai vertici del potere politico, economico, sociale, culturale. In Defence of the Baby Boom Legacy è il saggio con cui Leonard Steinhorn ha reclamato a gran voce la grandezza della sua generazione, capace di portare il mondo al massimo grado di benessere mai raggiunto.
Di David Willets, invece, la bibbia della critica ai boomer, The Pinch. How the Baby Boomers Stole their Children’s Future, nella quale l’egoismo della generazione che non vuole invecchiare è accusata di aver rubato il futuro dei propri figli, dissipando le ricchezze dei nonni e vivendo al di sopra delle proprie possibilità.
(…) L’Italia, al solito, è un caso a sé. Perché se oltre confine il dibattito intorno alle performance dei boomer al potere è ancora aperto e di là dall’essere chiuso, dalle nostre parti la sconfitta dei boomer è di una tale chiarezza empirica da lasciare addirittura sconcertati. La loro stagione coincide, infatti, con la fase più depressiva che la Repubblica abbia mai vissuto.
I numeri parlano chiaro. Negli anni sessanta il nostro Pil è aumentato del 55,7%; negli anni settanta del 45,2%; negli anni ottanta del 26,9%; negli anni novanta del 17%; nel primo decennio del nuovo secolo del 2,5%. Il fallimento dei boomer italiani sta in queste cifre facili da tenere a mente: avevano ereditato dai loro padri un’Italia in gagliarda crescita economica e oggi lasciano, ai loro figli, un paese depresso in costante declino.
Il welfare italiano che si è andato definendo dal primo centrosinistra (1963) fino alla promulgazione dello statuto dei lavoratori (1970) ha avuto la forza di imporsi come poderoso motore di modernizzazione sociale, con una capacità inclusiva tra le più notevoli in Europa. Tuttavia a partire dalle crisi degli anni settanta, quella forza inclusiva si è andata vieppiù indebolendo, fino a estinguersi definitivamente nell’ultimo quindicennio, quando prima la stagnazione e, più di recente, la recessione, le hanno dato il colpo di grazia.
Infine, la cornice istituzionale ha retto alla stabilizzazione post-degasperiana del bipolarismo bloccato all’italiana, finché il partito asse di governo, la Democrazia cristiana, ha potuto chiamare alla responsabilità i partiti antifascisti dell’arco costituzionale. L’idea morotea della democrazia come fenomeno espansivo ha trovato sbocco nel lento spostamento a sinistra del baricentro di governo, fino agli anni preparatori della solidarietà nazionale.
Ma poi il compromesso storico è fallito e la concezione morotea della democrazia ha dovuto farei conti con l’impossibilità di espandersi fino a Pci. È così esplosa l’esigenza di un profondo riformismo costituzionale, che ci ha smarriti nella selva oscura della lunga – estenuante ed estenuata – transizione istituzionale. Fino ad arrivare alla tragicommedia della cosiddetta Seconda repubblica.
Quando i boomer italiani, di qualsiasi collocazione politica essi fossero, si sono trovati in mano, dopo la caduta del muro di Berlino, il timone del governo, hanno dovuto fare i conti con i tre problemi poc’anzi precisati: la bassa crescita economica (con il montante debito pubblico), l’ampliamento degli spazi di diseguaglianza sociale, l’esigenza di modernizzazione dell’assetto istituzionale. Con un estro difficilmente replicabile, i boomer italiani non sono stati capaci di mettere mano a nessuna di queste tre grandi questioni. Anzi, si può dire con certezza, dacché la verifica è facile da realizzare, che la cattiva azione di governo le ha grandemente aggravate.
Che poi la generazione del fallimento, quella dei boomer italiani, sia stata dominata dalla leadership di Silvio Berlusconi, che non rientra anagraficamente nel segmento temporale dei boomer, è un’ulteriore e clamorosa indicazione della sconfitta generazionale cui sono andati incontro. Mai tanto potere si è concentrato nelle mani di una generazione con un effetto di tale inconcludenza. Mai ignavia e inerzia si sono fuse nel putridume di una palude tanto limacciosa.
Mai in Italia, patria del risparmio e della parsimonia, si è assistito a uno scialacquamento tanto poderoso del risparmio familiare per sublimare i propri vizi, la propria indisponibilità a riformare il welfare e la propria incapacità di produrre nuova ricchezza. Al punto che, nella sua ultima relazione, il presidente della Consob Vegas ha registrato che negli ultimi vent’anni il risparmio delle famiglie italiane è crollato dei due terzi. Mai si è assistito con tanta indifferenza alla mancanza di cura per la generazione dei figli.
L’Italia è oggi il paese degli insider. Se si è inseriti in un qualche contesto per diritto di nascita, si ha garantita una vita tranquilla. La spinta degli outsider è depressa in origine, dal momento che la scuola non svolge da almeno vent’anni il compito di principale e insostituibile ascensore sociale.
(…) Il caso della sinistra italiana è emblematico: una generazione formata alla politica in giovane età, selezionata con cura nella fase di maggiore espansione del Partito comunista italiano, stimolata nell’ingegno e sperimentata sul campo, talvolta anche un po’ coccolata, è riuscita a comportarsi come il terzo accidioso servo della parabola evangelica dei talenti. Si è presto adattata, appena giunta al potere nei primi anni degli anni novanta, a conformarsi allo stile inerte delle elite esistenti. Nel fiorire di partiti personali, ha costruito un partito modello “monte Olimpo”, in cui un gruppo di perduranti divinità si diverte a litigare, a competere, ad allearsi e a tradirsi l’uno con l’altro.
Un partito il cui unico scopo consiste nel preservare la cima del “monte” dalla possibilità che qualcuno, non eletto a divinità, possa scalarlo. Così la sinistra ha assunto, organizzandosi, una funzione rigidamente conservatrice. In un sistema-paese regolato da circuiti di relazione tra diverse elite impermeabili agli outsider, il maggiore partito del centrosinistra italiano ha scelto una strutturazione coerente al sistema. Organizzando la propria democrazia interna in questo modo, la sinistra ha naturalmente replicato nella battaglia politica quotidiana la funzione conservatrice della difesa della ditta.
Come una qualsiasi grande azienda familiare italiana che, pur di non vedere perso il controllo della famiglia, preferisce non crescere aprendosi al mercato, il partito della sinistra ha preferito non crescere in consenso elettorale, intercettando voti non tradizionali, pur di riservare ai soliti il controllo della ditta. È la storia del giochino enigmistico Pci-Pds-Ds-Pd, in cui le stesse lettere escono e rientrano nell’acronimo, al solo scopo di fare in modo che l’acronimo possa perennemente comparire sulle schede elettorali.
Eppure qualcosa nel Pd sta avvenendo. Sotto la spinta di una leadership, quella di Matteo Renzi, che non ha chiesto il permesso per imporsi come tale, è cominciata da qualche mese un’originale scalata al “monte Olimpo” della sinistra italiana. La leadership individuale di un outsider sta sfidando la leadership collettiva degli eterni insider della sinistra. Ancorché da anni sia chiaro a tutti nel mondo, a destra come a sinistra, che la qualità di una democrazia si misura con la qualità delle leadership individuali che essa esprime, nella sinistra italiana pare essere un’acquisizione recente (e in fondo ancora da conquistare).
La grande novità che Renzi rappresenta sta tutta nella sua scelta di uscire dalla logica del cursus honorum, dopo averne fatto parte e averne goduto dei vantaggi, per imporsi come leader fuori da quella logica. A Renzi non interessa far parte di una leadership collettiva, tipica del sistema generale delle elite italiane, che a rotazione concede ora a questo, ora a quello, di essere al timone. Di più, dopo anni di patologico complesso della leadership, Renzi, leader di sinistra, mostra di non avere alcuna necessità dello psicologo e si pone, per la prima volta, come un leader più tradizionalmente europeo: se vinco, bene; se perdo, me ne vado. E a tale destino lega, conseguentemente, il gruppo dirigente che va organizzando intorno a sé.
Renzi è l’outsider per definizione. E s’incarica di ristrutturare lo strumento partito in funzione degli outsider che verranno dopo di lui. Produce così un corto circuito all’interno del vecchio meccanismo di funzione della selezione del personale politico, che è alla base delle basse performance di governo prima evidenziate. Non che Renzi non coopti, certo che coopta! Ma coopta in funzione di un disegno strategico che non potrebbe mai adattarsi a tutte le stagioni.
Renzi, figlio dei suoi tempi, coopta a tempo determinato, coopta a progetto. Non pretende di cooptare a tempo indeterminato perché il suo stile è costruito per essere in sintonia con un tempo preciso, quello presente. Un piano ancora più chiaro se si considera che Renzi pretende di estendere la dinamica della leadership individuale contro le leadership collettive delle altre elite italiane, oltre i confini della politica, portando la “rottamazione” dentro ogni ambito e settore della classe dirigente nazionale.
*estratto di un articolo pubblicato sul numero da poco in libreria di Mondoperaio, rivista diretta da Luigi Covatta