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La violenza non è un conflitto


Quando una donna muore

L' Istituto nazionale di statistica nell'ultimo resoconto annuale riporta che l' 84,1% delle vittime di omicidio sonno donne, che in larga parte non avevano denunciato per cautelarsi quando aggredite da soggetti così disturbati e manipolatori da arrogarsi perfino il diritto di eliminarle fisicamente.  

Disturbati, però, non vuol dire innocenti.

Il femminicidio non deriva da un raptus o da una perdita di controllo casuale, ma da "un comportamento violento intenzionale legato a fattori sociali e culturali" secondo quanto descritto da un recente studio pubblicato dal forum internazionale Legal Medicine in un articolo dello scorso ottobre.

La violenza viene pertanto definita come " un comportamento intenzionale" basato su una "tenace volontà di sopraffazione" che non scaturisce da alcun conflitto, perché ciò presupporrebbe il riconoscimento dell'altro in un contesto di potere equilibrato in cui l'identità e la dignità di ciascuno sono preservate, senza paura e senza atti intimidatori. Nella violenza, invece, c'è lo schiacciamento del soggetto-oggetto più debole.

La violenza di genere, dell' “uomo” sulla donna, come confermato dalla casistica mondiale, nasce quasi sempre da una scelta, poiché nessun individuo, neanche il più discontrollato e malato è privo di connessioni cerebrali: i violenti scelgono bene l' oggetto su cui sfogare la propria rabbia, che mai è più forte fisicamente o socialmente. E la scelta della preda è tanto più vile quanto minori difese ha la vittima.

L'identikit dell'uomo violento, verbalmente e fisicamente, è perciò quello di un frustrato, “uno che non ha rivali” nel senso che non regge il confronto con i suoi simili, gli uomini veri, quelli adeguati al contesto sociale e rispettosi dell'altra.

Da quanto frequentemente riportato nei casi di cronaca emerge inoltre come questa sottotipologia del genere maschile esista e resista spesso celata da un altro sottogenere umano, quello delle donne complici. Le complici di violenza su altre donne, sono pure queste delle vittime, ma di sé stesse, della percezione di non avere particolari pregi o di non avere la capacità di viverli, e quindi della propria frustrazione, che si trasforma, per compensare tanta piccolezza, in cieca smania di annientamento fisico o sociale della malcapitata.

Cosa fare intanto, mentre la ricerca internazionale e la Legalità sono sempre più fortemente protese ad arginare una piaga definita "globale" dalla WHO ?

Da parte delle vittime, allontanarsi tempestivamente evitando l'isolamento, considerato tra i principali pericoli imminenti di eliminazione anche fisica, e denunciando agli organi competenti le condotte a rischio.
Riconoscere i primi segni di violenza occorre, infatti, per dissuadere il violento, tutelarsi preventivamente e cristallizzare reati sentinella come minacce o percosse.
Da parte della comunità, contrapporsi: opporsi drasticamente in un momento storico dove la "prevenzione affettiva" è diventata urgente.

Per essere davvero capillare la prevenzione deve attuarsi concretamente non avallando né sottovalutando i comportamenti violenti, a partire da chi circonda le famiglie o scorge episodi a rischio anche tra parenti e conoscenti, non isolando le vittime, ma ergendo al contrario barriere fisiche e morali a protezione di chi ripetutamente subisce: violenza verbale, condotte manipolative, atti diffamatori e ossessivi, umiliazioni, perseverante volontà di isolamento

Data la facile identificabilità dei reati elencati, risulta evidente che quando questo scudo dalle viscere della società non si alza, al di là delle condanne giuridiche, il colpevole non è uno solo.
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Fonti: Istituto nazionale di statistica.

Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio.

 "Svelare il nesso oscuro: una revisione sistematica sull’interazione tra salute mentale, abuso di sostanze e fattori socio-culturali nel femminicidio" Legal Medicine articolo del 7 ottobre 2023











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