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Bersani, Renzi, Partito Democratico, M5S: un fallimento

20 - 04 - 2013Osvaldo Baldacci[3]

“Uno su quattro tra noi è un traditore”. Il momento più drammatico della storia del Partito Democratico. Bersani e la Bindi si arrendono dopo che cento franchi tiratori hanno impallinato il fondatore della linea ulivista precedentemente osannato con ovazione unanime. Seconda vittima dopo Franco Marini, sindacalista, presidente del Senato, moderato. Ma forse la conclusione era inevitabile. Il problema era nelle premesse.

Il Movimento 5 Stelle

Può aiutare a capirlo l’entusiastico applauso scrosciante che – disattenti ai problemi del Paese – hanno fragorosamente esploso i parlamentari del Movimento 5 Stelle quando il loro candidato Rodotà ha raggiunto il numero di voti corrispondente alla consistenza del loro gruppo.  Come lo interpreto? Manifestava la grande gioia di aver mantenuto compatto il gruppo, senza cedimenti. Cedimenti a Prodi, cedimenti a una soluzione condivisa. Cedimenti a una soluzione. Cedimenti al dialogo. Per loro la compattezza settaria del movimento su una linea intransigente era più importante del contribuire a trovare una soluzione. E evidentemente avevano paura di non farcela, che qualcuno dei loro sarebbe stato tentato di partecipare a una percorribile ipotesi di soluzione. Di qui l’applauso liberatorio, a certificare che i loro voti sono congelati, inutili a qualsiasi realizzazione. Per carità, ha senso, è coerente. Ma deve essere chiaro. Ai cittadini e alle altre forze politiche.

La rincorsa (anche degli italiani) al nuovismo antipolitico

Bersani (e molti altri più ancora di lui nel PD) non ha capito o non ha voluto capire questa impostazione messianica del M5S, e anzi lo hanno rincorso. Cominciando con la rottamazione e proseguendo con la linea politica di avvicinamento almeno ai sentimenti espressi dal grillismo. Tentando una convergenza su posizioni di sinistra, peraltro più presunte che accertabili. Ora è il momento di un bilancio. Ed è un bilancio fallimentare. Ma non solo per il PD, questo è banale. Il punto che non si ha il coraggio di ammettere è che tutta la rincorsa nuovista, antipolitica e socio-civile degli ultimi tempi sta portando nella direzione sbagliata. Una classe dirigente è tale se si assume competentemente il compito di dirigere. Non se insegue gli umori. Non deve essere insensibile e distaccata rispetto al Paese (problema che certamente si è manifestato negli ultimi anni), ma deve responsabilmente guardare oltre con lungimiranza. Ultimamente in pochi hanno mostrato di essere in grado di farlo, ma bisogna anche dire che gli italiani non hanno voluto dare fiducia alle realtà responsabili ma hanno preferito votare “contro” inseguendo la demagogia. E questo è il risultato.

La mancanza di politica

Qualcuno per i franchi tiratori ha parlato di “roba da prima Repubblica”, ma ha completamente sbagliato il bersaglio. Certo che c’erano i franchi tiratori nella prima Repubblica, ma c’era un disegno e una responsabilità politica, un senso delle istituzioni che accompagnava anche gli interessi personali e le lotte di potere. Queste sono ineliminabili, ma possono essere contenute dentro un contesto valido. Oggi invece siamo nel caos, mancando i partiti mancano i mediatori, sono tutti cani sciolti, spesso con scarse competenze istituzionali, tecniche e politiche. La selezione fatta non in base al merito ma in base al “rinnovamento” finisce per far rimpiangere i dinosauri. Si sta capendo giorno dopo giorno che la guida di un Paese non si improvvisa, serve capacità e competenza specifica. Servono i partiti, che diano un inquadramento, facciano percorrere delle strade comuni e controllate, verificate. Serve un ideale, se non una ideologia, che dia ai cittadini il senso del perché quelle persone, quegli schieramenti stanno in Parlamento, e del cosa vogliono fare (programma garantito non dalle opportunistiche chiacchiere del momento ma da un consolidato quadro di valori di riferimento) e del cosa faranno, rendendo possibile una verifica del comportamento in base alla scala di valori condivisa dagli elettori.

Il partito PD contro i partiti

Il PD, che poteva sembrare un ultimo baluardo di questo approccio strutturato, è invece naufragato come e più degli altri. Perché ha assommato i vecchi difetti a quelli nuovi. Vecchi, come la spocchiosa convinzione dell’autosufficienza della sinistra, sempre sistematicamente smentita dalla storia. Eterni, come le lotte di potere, ma stavolta potenziate dalla mancanza di veri quadri di riferimento e dal conseguente assetto da guerriglia tribale. E nuovi, come il dare credito ad alcune auto-illusioni: che la struttura del partito fosse solida; che le primarie sono la cura di ogni male; che il rinnovamento quasi indiscriminato fosse di per sé la soluzione dei problemi. Quest’ultimo punto è chiaro: a sinistra, a destra, al centro e tra i grillini, aver portato troppe persone nuove, giovani, inesperte della politica non ha contribuito a risolvere i problemi, anzi. Un certo rinnovamento dovrebbe essere fisiologico, l’iniezione di  energie e competenze dalla società civile è necessaria, ma pensare che tutto il buono era fuori e tutto il male dentro non poteva che creare questo disastro. La selezione va fatta invece sul merito e sulle capacità. E le primarie sono un’altra trappola per il PD: suscitano un falso entusiasmo sulla partecipazione, ma in realtà è un ritrovo autoreferenziale ma non ordinato e sensato (cosa diversa sarebbero primarie interne a partiti che funzionano), una trovata mediatica che finisce per illudere ma di fatto porta sempre a estremizzare le posizioni, portando a vincere le primarie e perdere le sfide che contano.

Il fallimento del PD a mio avviso non è quindi l’esito di un tradimento politico, ma del tradimento della politica.

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